PATRIA di Fernando Aramburu

Secondo Marx, le circostanze fanno gli uomini non meno di quanto gli uomini facciano le circostanze. In Patria di Fernando Aramburu le circostanze creano un mondo dove i valori sono intercambiabili, i giudizi impossibili. I protagonisti sono contrabbandieri di sentimenti, outsiders.

Riguardo gli outsiders, la letteratura d’occidente è un fiume carsico, che scorre tra chi è guidato da una visione del mondo (Achille, Stavrogin, Ulrich, Castorp) e tra chi invece è prono di un habitat incomprensibile che lo sovrasta (Edipo, Samsa, Josef K, Pasenow). I primi sono spesso folli, i secondi di frequente schiavi. Secondo la scelta di narrare il mondo da un lato o dall’altro, cambia la diagnosi e la cura. Aramburu opta per la seconda possibilità, costruendo un romanzo solo apparentemente storico, solo apparentemente sulla questione basca, solo apparentemente sull’omicidio come atto morale nei confronti del “tiranno”: in realtà edificato sull’impossibile approdo umano alla conoscenza del giusto, che è forse la caratteristica del nuovo nichilismo.

La trama è costituita dalle labirintiche relazioni umane interne ai componenti di due famiglie colte dall’occhio dell’autore qualche anno prima della splendente decadenza del territorio basco, causa e conseguenza della deflagrazione dell’irredentismo.

I due capifamiglia, Txaco e Joxian, fanno lunghe pedalate domenicali, le mogli sono legate da un’amicizia che viene da lontano, i figli frequentano le stesse scuole. Ma la vita è in agguato: Txato, piccolo imprenditore, si rifiuta di pagare la “tassa sulla rivoluzione” all’ETA e, complice Joxe Mari, il figlio maschio del suo amico Joxian, cade vittima di un attentato. Per le due famiglie è la diaspora, figlia dello scontro e madre dell’odio, che si ricompone solo alla fine della vita, quando, sconfitti dall’esistenza, ci si ritrova tutti sotto lo stesso cielo.

L’autore non indaga il perché della situazione storica che vivono i protagonisti, che risultano monadi più che effetto di relazioni, non vi è mai un riferimento alla genesi della crisi, al tramonto della loro civiltà: semplicemente non è dato sapere.

La conseguenza di ciò è che non si è in grado di stabilire inequivocabilmente chi stia dalla parte della ragione e chi da quella del torto, né il lettore si può fare un’opinione su questo: Joxe Mari non è un intellettuale che ideologizzi il terrorismo, come i demoni dostoevskiani, e spieghi al lettore – o nei dialoghi o nel flusso di coscienza – il perché di una scelta di morte, è banalmente un semplicione basco che il caso ha spinto alla clandestinità e alla lotta armata; prima del delitto non vi è come in Delitto e castigo, un Raskolnikov che si chieda “Saprò essere un Napoleone?”, dopo il delitto non vi è un assassino che accetti il castigo per rinascere: nel libro la verità è semplicemente impossibile da accertare e di riflesso la giustizia ha natura esclusivamente convenzionale; Joxe Mari finisce in carcere, non perché sia giusto, ma semplicemente perché la sua fazione ha perso.

Giornate di marasma, di noia. Eppure, meglio passarle in una torrida solitudine, in passeggiate crepuscolari e, di tanto in tanto, nella piscina della Hipica con un libro affascinante/ameno, giallo/facile da capire, che occuparle dalla mattina alla sera a incassare i rimproveri materni.

Quindi, Aramburu accetta l’idea che la Storia non abbia una sua particolare logica, che sia solo una delle traiettorie che erano ex-ante possibili, nel senso che all’autore non interessa la Storia “reale”, ma la forza incontrollata, sotterranea, che plasma le storie personali dei personaggi. Joxe Mari diviene un terrorista? Poteva con la stessa probabilità divenire un elettricista, un ragioniere o, addirittura, un poliziotto. Quanta differenza con gli anti-eroi eroici, i terroristi di Dostoevskij, gli assassini, dai Demoni a Delitto e Castigo! Il percorso nichilista di Stavrogin e il concetto della morale dell’ultrauomo di Raskolnikov (che tanto influenzò Nietzsche), sono il frutto del caos interno all’Uomo, che poi Freud e Lacan avrebbero descritto. Aramburu non batte questa pista, non è interessato allo scontro interno all’Uomo, il suo sguardo si posa piuttosto sull’Uomo come piegato del tutto casualmente dal contingente, dall’habitat, da quel borgo, San Sebastiàn, muto e scolorito, frustato dall’inedia del pensiero, dove vivono (o non vivono?) i protagonisti.

Joxe Mari assomiglia molto di più ai personaggi kafkiani del Processo e del Castello, che vivono da un lato del mondo senza saperne il motivo, che non ai terroristi di Dostoevskij, che sanno esattamente il loro folle perché.

 

Tu hai la tua prigione, io ho la mia. La mia è il mio corpo. Mi è toccato l’ergastolo. Un giorno tu uscirai dalla tua prigione. Non sappiamo quando ma uscirai. Io non uscirò mai dalla mia.

Da un punto di vista tecnico, l’Autore crea un approccio di digressione sistematica, la linea narrativa principale è continuamente interrotta da vicende a latere, flashback, analessi, racconti dentro il racconto. Questa struttura crea un romanzo labirintico e fluviale, un infinito gioco di specchi, dove il senso dello scorrere vorticoso e stocastico mima l’incomprensibilità dell’esistenza.

Siccome una delle controindicazioni peggiori delle relazioni umane è che, a cercare con dovizia, in ogni opinione c’è del vero, in ogni azione c’è del giusto, se viene dato tempo di argomentare, dopo un po’ sembra che ogni atto possa essere giustificato, come del resto il suo contrario. Questo porta all’assoluzione completa del genere umano, esattamente come la tesi che vede l’agire dello stesso vincolato da eventi esterni. Nel novecento, tra i primi a utilizzare questo modo di raccontare l’Uomo, è stato Hermann Broch, negli anni trenta, con la trilogia de I sonnambuli che, come ebbe a dire Kundera “concepì il tempo europeo come un processo di disgregazione (nietzschiana) dei valori”.

Ma in ogni caso, folli o sconfitti, gli outsiders vivono sempre nell’infinito inverno del loro malcontento, parlano poco e se lo fanno evocano una specie di Apocalisse, i fortunati che muoiono senza darsi la morte o senza vivere un’infinita condanna a morte, vengono ingoiati da una terra dura come ghiaccio.

In fondo, per i protagonisti di Patria, che non temono né sperano, inferno e paradiso pari sono, colorati con la stessa irrilevanza. Del resto, solo chi ha uno scopo, di fronte a un evento, teme o spera, in quanto vede il fine in pericolo o invece il suo concretizzarsi. Quello che risulta importante per i protagonisti è cavarsi fuori dal giogo – posto fuori di loro stessi – della spinta all’azione: questo immane tentativo, che nel libro è destinato al fallimento, è la risposta suggerita dall’autore alla domanda: cosa si deve fare delle nostre vite?.

Quindi, i nichilisti del nuovo millennio di Aramburu sono ancora più depauperati dei nichilisti ottocenteschi, hanno perso persino il lacaniano futuro anteriore – io sarò stato quello che sono in base a quello che ho deciso di essere – che caratterizza gli ultrauomini di Nietzsche, che sono ciò vogliono essere e lo saranno per sempre, per cui l’eterno ritorno dell’uguale altro non è che il divenire dell’ultrauomo, divenire escluso dalla gelatina esistenziale che sclerotizza i personaggi di Patria.

PATRIA
Fernando Aramburu
Trad. Bruno Arpaia
Guanda (Narratori della Fenice)
pp. 640
euro 19

2 thoughts on “PATRIA di Fernando Aramburu

  1. Ho molto apprezzato questo articolo. Rossetti offre una visione molto ampia e colloca i personaggi nei loro rapporti con la Storia, offrendo termini di raffronto (per analogia o per contrasto) davvero illuminanti che non avevo colto. Di Patria, libro che avevo trovato interessante, avevo dato una lettura superficiale: due famiglie vicine fra loro per i legami di amicizia fra le generazioni coinvolte (padri, madri e figli) e che progressivamente si allontanano per motivi politici. L’articolo offre una chiave interpretativa della futilità dell’aver abbracciato il fucile per una causa che lascia alla fine indifferente gli altri che li sostengono solo a parole. 

    • Marco Fanari, grazie del commento! Da quello che dici non sembra che la tua sia stata una lettura “superficiale” di Patria.
      Un caro saluto
      AR

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