I MIEI STUPIDI INTENTI di Bernardo Zannoni

Mio padre morì perché era un ladro. Rubò per tre volte nei campi di Zò, e alla quarta l’uomo lo prese. Gli sparò nella pancia, gli strappò la gallina di bocca e poi lo legò a un palo del recinto come avvertimento. Lasciava la sua compagna con sei cuccioli sulla testa, in pieno inverno, con la neve.

Sopravvivere è dura se si è nati in una tana umida in mezzo al bosco. Archy è una faina. Suo padre, dopo aver fatto il suo dovere fisiologico, ha abbandonato la madre a svezzare lui ed i suoi fratelli, non sempre con successo. Tuttavia, il mondo che gli viene promesso è questo: solo i forti sopravvivono. Archy, tuttavia, è un caso a sé: reso zoppo da un incidente di caccia, non è abbastanza vigoroso da sopravvivere senza difficoltà, né abbastanza debole da lasciarsi morire. La madre perciò lo vende alla volpe Solomon, usuraio che, in cambio del figlio, le darà cibo a sufficienza per sfamare il resto della famiglia. Così la faina e la volpe iniziano la loro travagliata convivenza. È con lui che Archy scoprirà di avere degli istinti apparentemente dissimili da quelli che riconosce in chi appartiene al suo mondo, circoscritto nella vastità di una collina.

Le sue giornate trascorrono governate dalla tirannia di Solomon e dalla sua violenza. La cena in tavola, per lo meno, non manca mai: è lì che finisce chi non estingue i debiti con l’usuraio. Gioele, il cane senza passato, fa da guardia alla tana di Solomon e si spinge ogni giorno a riscuotere i pagamenti fin oltre il bosco. Archy lo vede abbandonare ogni giorno la casa e partire, tornando solo quando la giornata è ridotta alle sue ultime ore. Scopre che il mondo continua, oltre.

A poco a poco, nello stomaco di Archy, nasce uno strano male. Esso stringe le membra e procura la stessa sensazione di quando si insegue uno scoiattolo fin sulla cima di un albero e, una volta raggiunta, si guarda in basso. È eccitazione, curiosità, paura. Lo stesso gli accade quando scorge Salomon nel misterioso atto di reggere in mano uno strumento misterioso. La penna. E di tracciare simboli simili ad impronte su di una superficie ignota. Scrivere. È grazie alla volpe che Archy comprende uno nuovo scopo, ben diverso da quello di sopravvivere. Non si tratta più di arrivare a sera con le ossa intatte e la pancia piena. La vita non ha più la forma della collina: è gioia, scoperta, amore e dolore. Molto più dolore di quello che provocano i morsi della fame e le ferite di un combattimento per aggiudicarsi una preda.

I miei stupidi intenti ha valso a Bernardo Zannoni la vittoria del Premio Campiello 2022, catapultandolo nell’occhio del ciclone. Volume discusso che si presenta come una favola per adulti. Per apprezzare pienamente il valore di questo romanzo è necessario abbandonare la superba smania di essere cresciuti ad ogni costo, smettendo di concentrarci su ciò che ci viene detto e sulla ricerca della perfezione della forma, ma bensì su ciò che ci è lasciato intendere. L’errore in cui si potrebbe incappare leggendo il libro è quello di cercare realismo. Archy certamente non pensa come una faina e raramente agisce come tale. Quando ciò avviene è lo stesso protagonista-narratore a colpevolizzarsene, sentendosi in difetto per il suo distanziarsi dal modo di agire comunitario. È all’uomo che Archy vuole assomigliare e sono i pensieri tipici della nostra realtà quelli che scandiscono la sua vita. Un animale dimenticato da molti, come la faina, viene antropomorfizzato, ereditando i più umani istinti, primo fra tutti, quello che ci distingue maggiormente: la coscienza. Il concetto eterno di giusto e sbagliato sono appresi da Archy grazie agli insegnamenti di Solomon attraverso la lettura della Bibbia. I nostri concetti etici diventano, perciò, gli stessi di un animale.

Imparai ad apprezzare la solitudine e trovare la pace con Dio. Mi fu chiaro che il mondo non odia nessuno, e se è crudele, è perché noi siamo crudeli.

La vita di Archy è una riflessione sulle nostre. È, alla fine, la semplice coscienza a renderci la specie più evoluta? Oppure è lo stupido intento di perseguirla, spesso a nostro discapito, e di smettere di voler essere diversi da ciò che siamo a donarci davvero umanità? È così che l’ho interpretato, mettendo da parte l’orgoglio con lo stupido intendo di capire daccapo. La moralità su cui si fonda il racconto può non essere condivisa, ma ciò non toglie che, a prescindere dagli ideali personali, gli spunti di riflessione siano vari e vasti.

Questo è il mio ultimo stupido intento: scappare, come tutti dall’inevitabile.

I MIEI STUPIDI INTENTI
Bernardo Zannoni
Sellerio (Il contesto)
pp. 252
euro 16

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