IL DEMONE A BESLAN di Andrea Tarabbia

Voglio dire che non so perché scrivo. Nel caso in cui qualcuno leggesse questa cronaca, so perfettamente che potrà usarla contro di me non appena se ne presenterà l’occasione. Ma a questo punto non ho niente da perdere – io non ho mai avuto niente da perdere-, e dunque scrivo […] Scrivo piccolissimo per farci stare il maggior numero di cose possibile.

Vincitore della 57esima edizione del premio Campiello con Madrigale senza suono, Andrea Tarabbia non ha bisogno di presentazioni. Tuttavia, ho scelto di leggere il meno famoso Il demone a Beslan, (Bollati Boringhieri), perché incuriosita dalla “seconda vita” che l’autore ha voluto regalare a questo romanzo, pubblicato per la prima volta nel 2011, ma anche e soprattutto perché rappresenta il suo “romanzo-matrice”, il punto da dove ha sviluppato un’idea personale di letteratura (https://andreatarabbia.wordpress.com).

Se la trama e i personaggi sono inventati non lo è la vicenda a cui si ispirano: l’assedio alla Scuola n.1 di Beslan avvenuto nel 2004 e la sua conclusione con 334 morti, di cui 186 bambini e adolescenti.

un’intera città è morta per colpa vostra, un’intera generazione di bambini

Il protagonista del libro, Marat Bazarev, recita il monologo dell’unico sopravvissuto tra i terroristi mentre le altre voci che sentiamo sono quelle evocate dai suoi ricordi o dai suoi fantasmi. Il palcoscenico/cella in cui si muove è illuminato ventiquattro ore su ventiquattro da Mumu, la lampadina che ha meritato un nome proprio e che funziona come un occhio di bue teatrale.

Non so di preciso che cosa succeda a chi distrugge Mumu (non conosco questo protocollo), ma di sicuro succede che almeno per qualche minuto si resta da soli nella pace del buio.

Mumu annulla gli angoli bui durante la lunga notte in prigione ma non riesce ad allontanare le ombre che parlano all’orecchio di Marat: Ivan, un vecchio con il viso deformato dalla malattia (o dal demone che c’è a Beslan?) e Petja, una delle piccole vittime, ciascuno con un punto di vista privilegiato sulle vicende della scuola. Sono giudici e spettatori. Il vecchio malato descrive ciò che avviene all’esterno in quelle ore drammatiche invece il bambino racconta della paura, della sete, del caldo, del bisogno di un bagno e dello stesso Marat con la sua minacciosa testa di forca. Questa rappresenta per il terrorista il legame con la Cecenia, con il mondo da cui proviene e che è stato violato dalla guerra; gli ricorda com’è cominciata la sua storia e perché debba finire nel sangue. Marat è colto, analitico nelle proprie valutazioni e sempre lucido nelle decisioni; non è un caso che la data decisa per l’attacco coincida con il primo giorno di scuola, il “giorno della conoscenza” che diventa conoscenza della violenza e fine delle possibilità.

Ogni famiglia cecena è infelice, e lo è allo stesso modo. Noi pensavamo di poter dare una voce e un kalašnikov alla furia delle madri […] Chi lotta per la sua terra è sempre dalla parte della ragione.

I sopravvissuti potranno diventare mostri come i carnefici o soccombere, penso sia questa la sua idea di vendetta.

Ma la luce è sempre presente: la famigerata palestra che imprigiona gli ostaggi è illuminata da quella naturale del sole e il profumo dei fiori, anche se vago, è sempre presente nell’aria. Il nero è lasciato alle divise dei terroristi, ai corridoi bui dove si consumano gli omicidi, è il colore dei muri della scuola dopo la fine dell’assedio mentre un altro occhio di bue teatrale accoglie il prete confessore all’uscita della cella del protagonista. La realtà dei fatti sembra rendere netta la divisione tra colpevoli e innocenti, tra il giorno e la notte, e fa pensare di poter quantificare il male.

Tuttavia, il memoriale di Marat incoraggia piano, piano il lettore a chiedersi se sia possibile provare a capire le ragioni del mostro perché una strage di bambini deve in qualche modo essere giustificata, richiede un senso. Ho trovato un po’ sentimentale questo aspetto del libro così come la necessità di fare riconoscere all’assassino la propria colpa in vista di una cristiana redenzione ma il percorso psicologico che compie, reso con dialoghi veri e irreali oltre che con immagini è valso la lettura. Complice anche il linguaggio di Tarabbia, essenziale e angosciante, adatto a questo doloroso romanzo.

Personalmente, Il demone a Beslan mi ha spinta a documentarmi sulla strage per capire come fossero andate le cose, al di là della fantasia e del messaggio costruttivo dell’autore. Sul sito rt.com è possibile leggere la storia del vero terrorista sopravvissuto (Nurpashi Kulaev) e visionare il documentario Letters to a terrorist. Altri documentari sono: Beslan. Remember di Yury Dud e Beslan di Alexander Rogatkin, entrambi disponibili su YouTube, il primo con sottotitoli in inglese, il secondo solo in lingua originale.

She asked me if I want my kids to be like me. I’d really like them to be like me, sure,” he said. “But I don’t want them to share my fate. I wound’t want that. But I’d only be happy if they really were like me.

Nurpashi Kulaev

 

IL DEMONE A BESLAN
Andrea Tarabbia
Bollati Boringhieri (Varianti)
pagg. 384
16.50 euro

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