TRA IL SILENZIO E IL TUONO di Roberto Vecchioni

Tra il silenzio e il tuono, di Roberto Vecchioni (Einaudi), è l’ultima fatica letteraria del professore, famoso, soprattutto negli anni settanta, come cantautore “impegnato”. Si tratta di un’opera inquadrabile come non-fiction, cioè con contenuti non finzionali e fondati, o perlomeno fortemente ispirati, dalla realtà.

Il tessuto del libro è costituito da una serie di lettere che un nipote scrive a suo nonno sugli avvenimenti della sua vita, dall’infanzia, alla giovinezza e oltre. Il nonno non gli risponde mai, interloquendo invece con personaggi anche famosi, un po’ come Herzog, il personaggio creato da Saul Bellow che scriveva lettere mai spedite a Nietzsche e Heidegger.

Con il passare degli anni le traiettorie di nipote e nonno s’intersecano e il lettore comprende che si tratta della stessa persona colta in periodi diversi della propria esistenza: il versante empirico, il nipote, narra i fatti della vita, da un esame universitario, a un amore finito, mettendo in scena il lento sgocciolare dell’esistenza.

È  finita, nonno, è durata tre anni, ma forse doveva andare così. Ci siamo infrattati, frugati, dilaniati tutte le sere in un delirio inumano. Non ne avevo mai abbastanza, finivamo per ricominciare. Ho perso tempo, notti, esami, ho contato le ore inutili del giorno, salutando come un automa, e se non avessi avuto le canzoni, quell’andare e venire per case discografiche, sarei impazzito molto prima.

La parte ideale, il nonno, scrive di aspetti tra i più disparati, ma resi isomorfi dal tentativo evidente di togliere il velo di Maya alla realtà abusata di ogni giorno (lettera a Carlin Petrini, produttore).

Ultima perla. Non dimenticherò mai quando mi hai chiamato, con Guccini accanto, per congratularti con voce seria del mio probabile (ma aggiungo fatuo) ingresso nella rosa del premio Nobel. Fosti di una perfidia sublime lì con Francesco che fingeva forte, ma schiattava d’invidia. E tu: C’è qui Francesco, vuoi dirgli qualcosa? E io, che lui se lo sogna: non sa né il greco né il latino, e lui, come Shakespeare, d’altronde.

Ma il libro, che sembra parlare della vita, nei suoi aspetti concreti e ideali, improvvisamente ci manifesta che invece tratta del bordo dell’esistenza, del suo confine, della cosa ultima: sì, proprio, ci parla della morte! Del resto ogni opera letteraria – come ogni filosofia e alla fin fine ogni azione tentata o abortita – è un (vano) tentativo verso l’immortalità (simbolica), un esperimento di esorcismo della paura della finitudine: il libro di Vecchioni, in questo, non è diverso dagli altri. Malgrado l’Idea di Dio, le forme platoniche, l’etica di Spinoza, l’infinito di Cantor, assistiamo all’impossibilità di sopportare il dolore dell’assenza, che si colora d’illimitato e ubiquo, della morte di un figlio. Così come ci può essere ottimismo nella fiacchezza umana, scopriamo che è presente debolezza nella forza: la scoperta della morte ha la stessa potenza di quella dell’amore.

È mezzanotte e mezza quando suona il cellulare. Pronto, sono il dottor S., la sua voce è rotta. È uno psichiatra non chiama a mezzanotte… Silenzio e ancora silenzio… poi è sua madre che grida, gridano i muri. Ora è in piedi, le mani nei capelli, ora chiede, implora, ma sa. Si aggrappa a me e grida. Non ha più un viso, non ha più occhi. Dove? Quando? La circondo, la trascino, le strappo le braccia. Si rovescia il tappetto, il pavimento non c’è, non ci sono scale, il taxi non trova l’entrata. È il Policlinico. Sono bianchi e tutti lì schierati.

Alla fine nipote e nonno convergono, sono la stessa persona che ha la stessa età, e l’ultima lettera, intitolata “A me stesso”, parla – potrebbe essere altrimenti? – della morte, che bussa alla porta dell’autore:

E vieni – dice, – che siamo già in ritardo, sì – le rispondo – ma lasciami, ti prego, un’ultima piccola cosa da cantare:
sette paia di scarpe ho consumato, / sette fiasche di vino ho già bevuto, / sette volte mi sono innamorato, / e tutte e sette le volte era di te. / Sette fiumi di lacrime ho versato, / sette mari in tempesta ho attraversato, / sette stelle mi hanno illuminato / per arrivare a incontrare te.
E adesso sì, che grande luna c’è là fuori, adesso vengo, adesso sì.

L’ultima invocazione non è scritta da Vecchioni: è la nenia che gli ripeteva sua madre, quando da bambino aveva orrore non della realtà ma della finzione prodotta dal buio che ingoiava le sue notti. Ovviamente il riferimento è al Carducci di “Davanti San Guido”, che – malgrado come Vecchioni sappia “legger di greco e di latino” – ha perso, proprio a ragione del disvelamento della realtà, la leggiadria dell’infanzia e ritorna con il ricordo alla filastrocca della nonna, la stessa cantata dalla madre dell’autore: sette paia di scarpe ho consumato… La vita genera, nella propria agonia, l’arte, cioè la nostalgia del passato e il terrore della consunzione parassitaria del futuro: il tempo si trasforma nel letto d’un fiume in secca, si converte – come direbbe un altro grande tra i cantautori, Guccini – in “rotaie implacabili per nessun dove”.

Un libro dedicato a tutti ma soprattutto a chi ha attraversato gli anni settanta – quelli dei cantautori, dei gruppi rock, dei valori, delle speranze, raccontati nel romanzo e nelle canzoni di Vecchioni – spinto dall’ardore della giovinezza, dall’illusione dell’utopia e che ha poi vissuto il declinare del sogno, il suo divenire liquame nella fogna dell’egoismo individualista, del populismo, della retorica del noi-contro-loro.

Come nella vita dei singoli compare la morte, nel romanzo la stessa diviene metafora del vespero della storia, stigma dell’arrivo di questo tempo scolorito e inerte, pregno di istanti agonizzanti, padre e figlio dell’inedia, del tramonto d’ogni cosa: sette paia di scarpe ho consumato, / sette fiasche di vino ho già bevuto… per arrivare a incontrare te… così sia!

TRA IL SILENZIO E IL TUONO
Roberto Vecchioni
Einaudi (I coralli)
pp. 184
euro 18

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