NÉ IL FIORE NÉ IL BARATRO di Giovanni Rossi

Un modo di classificare i libri è quello che si basa o sul determinismo associato al progetto d’una solo traiettoria possibile nella lettura, anzi nella vita del lettore, oppure sull’accettazione, paradigmatica in Borges, della distribuzione di probabilità d’infinite traiettorie. Il bel libro di poesie di Giovanni Rossi – Né il fiore né il baratro (editrice ChiPiùNeArt, Roma) – appartiene inequivocabilmente al secondo tipo.

Il tessuto è spugnoso, la luce v’entra stentorea e ne percorre i tratti cedendo colore alle pareti dei tessuti, la struttura modulata con la curvatura del sogno, del resto la via dritta è dell’uomo e la piegata di Dio: all’impavido lettore come al reticente sbirciare non rimane che scegliere una tra le infinite chiavi di lettura; io ho optato, sa il cielo perché, per l’ingresso nel labirinto dalla parte della contumacia del padre (Mio padre non è un sarto), questo senza, ovviamente, nessuna supposizione che questa sia anche la traiettoria che sceglierebbe l’Autore se costretto nei panni del Lettore:

‘sto sarto di padre
non mi ha mai parlato male
(perché non mi ha mai parlato)
tranne una volta
presto presto di mattina…

Ma qual è il valore della parola del padre? Anzi, della Legge della Parola del Padre? E’ scritto tra i versi di Rossi: è quello di fondare la possibilità di tutte le altre leggi, di accettare il debito del passato, misurandolo e accogliendolo:

… e ‘sto sarto
di mio padre
teneva il metro nel pugno…

L’Uomo essendo fatto di linguaggio non può che manifestare il suo Essere con la parola. Dal cunicolo della latitanza del (la parola) padre, l’Autore ci conduce sui picchi e sui baratri (c’è il baratro, c’è malgrado il titolo della Silloge) dell’infinita sete di senso, di linguaggio come casa dell’Essere, relazione tra stati quantici dell’anima.
La traiettoria che seguo nella lettura presenta, ora, il divenire dell’Essere: il panismo, di marca dannunziana, delle Libellule umane sulle spiagge del siracusano:

…Su un letto di granato
abbiamo piegato i panni
a fabbricare altari che ci testimoniassero
poi nudi ci siamo consegnati
alle acque.

oppure di Così traghettiamo verso novembre?

…Parlami grillo
dal tuo letto d’asfalto bruciato
cosa pensi del cemento che ha digerito i campi?
Cosa dello smog che divora
il cuore spoglio delle nuvole?…

Ma il percorso prevede anche altre tappe, altre chiavi di lettera: echi profondi dell’esistenzialismo, come forma di umanesimo, di un pessimismo che ricorda certi paesaggi dell’anima in Pavese (verrà la morte e avrà i tuoi occhi…), la splendida Ogni cosa è maledetta:

Ogni cosa è maledetta
come terra vergine infeconda
è maledetto il fiore
che viene dal cemento e già muore
prima dell’ape prima dell’amore.

E quale è la conclusione della traiettoria che ci indica l’Autore, sornione, nascosto dietro al puzzle delle parole? Quale può essere il punto d’arrivo, la conclusione inconclusa, ad impossibilia nemo tenetur? La sconfessione, per mezzo della parola, del vuoto, che senza questa annichilirebbe la Forma, questa è la rivelazione! Il potere salvifico della poesia come materia per pontieri, l’assoluzione totale del genere umano di fronte al vuoto, ombra di Dio: la splendida La rivoluzione dei bambini, terza nella raccolta, ma, secondo la chiave di lettura da me proposta, conclusiva sul destino della Parola:

Il mio sogno è la pagina bianca
riempirla con parole non dico vere
né dolci neppure amare
parole di gesso sulla lavagna…

Ma soprattutto: Voglio solo riempire i vuoti ma le parole non sono abbastanza…

L’autore dichiara che v’è un deficit del linguaggio, non vi sono parole sufficienti per (tutti) gli stati quantici delle nostre coscienze, ahimè vi sono più cose in cielo e in terra … di quante non ne sogni la (nostra) filosofia: siamo partiti da un deficit che credevamo funzione della latitanza del padre e siamo arrivati a postulare un primigenio difetto del linguaggio deduttivo-assiomatico nel descrivere il mondo.
Il linguaggio di Rossi è improntato alla tensione dialettica tra oggetto e rappresentazione, è stabilito dall’azione della cosa sul segno, dal riconoscimento della necessità del rapporto semantico: in questo senso un linguaggio che si dà come Natura più che come Convenzione.
Per l’Autore il salto del baratro, di cui il titolo nega-asserisce l’esistenza, la saldatura delle discontinuità del linguaggio, è possibile con l’arte – e Rossi ne dà una splendida prova – la contumacia del Padre di cui (quasi) tutti siamo preda è emendata dalla poesia che ne fa esistere il nome: come ebbe a dire plasticamente Lacan, intendendo che (a volte) è il figlio che genera il padre, “è Cristo che salva Dio”.

 

NÉ IL FIORE NÉ IL BARATRO
Giovanni Rossi
Chi Più Ne Art Edizioni
pp. 78
euro 14

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