I SACCHEGGIATORI di William Faulkner

E’ tornato nelle librerie, per la Nave di Teseo, l’ultimo dei romanzi scritti da William Faulkner, I saccheggiatori, l’opera è del 1962, lo stesso anno della morte dell’autore.
La storia prende avvio, nel Mississippi e più precisamente nella contea immaginaria di Yoknapatawpha, la Macondo di Faulkner, in una primavera di inizio ‘900: Lucius è un bambino bianco di undici anni, rampollo di una famiglia borghese e benestante; scopriamo subito che in virtù dell’approccio calvinista del padre e del nonno, non è stato abituato nella bambagia, è già inserito nel tritacarne del mondo e della vita famigliare.

…e io ero seduto sulla sedia contro il muro ad aspettare mezzogiorno quando come ogni sabato avrei ricevuto la mia paga settimanale … dopodiché sarei stato libero di raggiungere (era maggio) la partita di baseball che andava avanti dall’ora di colazione senza di me: sulla base del presupposto (non mio: del mio bisnonno) che persino a undici anni un uomo dovesse già avere alle spalle un anno in cui aveva pagato, e si era assunta la responsabilità, per lo spazio, il posto che occupava nell’economia…

Il mondo di Lucius appare reietto nella luce opaca della stasi, delle pastoie di un perbenismo borghese, ma la vita incombe: Boon, il tuttofare bianco e Ned, il cocchiere nero di famiglia, coinvolgeranno il ragazzino in un viaggio picaresco, in un’avventura di quattro giorni che segnerà i suoi anni a venire: poi più nulla sarà lo stesso.
L’innesco della storia è l’acquisto, per rimanere sull’onda alta della società di Yoknapatawpha, di un’autovettura, la prima che si fosse vista nella contea, che segna – in quell’orizzonte angusto color provincia – l’arrivo dei tempi nuovi. Poi è il potere creativo del caso: la possibilità, per una serie di circostanze, di approfittare dell’assenza della famiglia, in trasferta per partecipare alle esequie di un congiunto, e partire “di contrabbando” con la vettura, insieme a Boon e Ned.

La decisione irrevocabile era ancora a un miglio davanti a noi, sulla strada per Memphis c’era il bivio per la tenuta McCaslin, dovrei avrei potuto dire Ferma. Lasciami scendere e Boon l’avrebbe fatto. Di più: avrei potuto dire Ho cambiato idea. Riportami alla McCaslin… non dissi niente; il bivio, l’ultima fragile mano impotente protesa per salvarmi, volò via…

Il viaggio, attraverso la polvere delle strade di campagna e sotto un cielo che appare come terra capovoltasi, si rivela essere l’iniziazione del giovane uomo-ragazzo alla vita; in un tourbillon di slanci, di balzi in avanti, entrano nella vita del ragazzo: prostitute, ladri, risse, gare di cavalli e scommesse sulle corse, vinte e perse.
Faulkner ci prende per mano e ci conduce nel suo mondo immaginario, proprio mentre con agili pennellate lo sta colorando d’avventura, nella sua rappresentazione mentale degli USA dei primi del ‘900. Un mondo volto al raziocinio del capitalismo, di cui la macchina per il popolo – come fu il modello T della Ford, il primo bene della produzione di massa: Potete avere il modello T di qualsiasi colore lo vogliate purché sia il nero – era per le classi agiate un imperativo categorico ma intriso dell’aporia d’una ruralità contadina, dei pregiudizi di razza e di genere, in fondo un mondo ancora feudale a fronte dell’alba del capitalismo consumistico. Lo sfondo è agreste, con le prime automobili non adatte a viaggiare su sentieri ancora sterrati e fangosi, un mondo in cui vige ancora la legge del più forte o del più furbo, il razzismo e la discriminazione. In questo habitat di striature medioevali, sopravvivono alcuni principi cavallereschi, il dovere e l’onore, Lucius, ne è colpito, infervorato:

la porta non era chiusa a chiave, ma il nonno aveva imparato da suo padre che nessuna porta aveva bisogno di una serratura, e lui lo aveva insegnato a papà, e papà mi aveva insegnato che nessuna porta aveva bisogno di una serratura: la stessa porta chiusa bastava fino a quando non fossi stato invitato ad entrare.

Non è un Faulkner al massimo del suo splendore, che fa brillare le parole come fossero luccicanti pepite, è già malato, dedito all’alcool e destinato a morire poco dopo la stesura del libro. Neppure i piani narrativi sono così cesellati e intersecantisi, come di solito avviene nei libri di questo autore, anzi la trama in fondo è semplice, inusualmente lineare: ma al di là di tutto e prima di tutto, questo è pur sempre un libro di Faulkner, pieno di veloci cambi di paradigma, illuminanti fasi di flusso di coscienza, intense immersioni in una lingua ricca e sfavillante, nel barocco delle descrizioni della natura e degli uomini.
L’ingegneria del romanzo, peraltro, è veramente peculiare, s’ipotizza che il bambino che fu e che divenne uomo nei quattro giorni della fuga, sia adesso un vecchio pieno di saggezza e possa narrare la vicenda ai propri nipoti. Questo permette all’autore di descrivere i fatti, i sentimenti e le emozioni provate da bambino, ma commentarle con l’esperienza di un adulto. Ovviamente, il bambino ora vecchio con le tasche piene di parole, come caramelle per i nipoti, è Faulkner stesso, conscio d’essere ormai in procinto di varcare il fiordo della terra di Thule: noi siamo, pertanto, i suoi nipoti felici di ascoltare ancora e ancora la voce del genio spiegarci la vita.

I SACCHEGGIATORI
William Faulkner
Trad. Carlo Prosperi
La Nave di Teseo (Oceani)
pp. 384
euro 20

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