Fresco d’autore: La città del vento. Intervista con Francesco Pulejo

IL ROMANZO
S., città di fiorenti traffici di malaffare e di intrecci fra criminalità organizzata e politica, è scossa dal brutale assassinio dell’avvocato Riccobono, difensore di molti mafiosi di spicco e di intere famiglie di malavitosi. Il primo movente sul quale si indirizzano le indagini sembra, però, poter essere fumo negli occhi e nascondere vicende ben più complesse della semplice insoddisfazione di un cliente di alto rango criminale per il modo in cui il legale ucciso aveva espletato il suo mandato. Si tratta di un romanzo corale in un senso molto particolare: è come se l’autore chiamasse, a narrare la storia della mafia di S., le diverse categorie coinvolte, le quali, nei dialoghi serrati che si alternano alle descrizioni dettagliate dei personaggi, degli ambienti e del paesaggio, raccontano una città, una classe dirigente e una criminalità con il diverso sguardo degli investigatori, dei colleghi della vittima, dei politici e degli stessi malavitosi. Non è l’unico tratto di originalità del bel romanzo di Francesco Pulejo, che ringrazio per aver voluto rispondere ad alcune mie domande.


INTERVISTA
La prima cosa che mi ha colpito, leggendo La città del vento, è stata la scrittura. Una prosa classica, diversa da quella che ormai ci aspettiamo quando apriamo un libro che parla di guardie e ladri, di delitti e indagini: non c’è il periodare di moda, secco e breve. Non c’è ‒ lo rimarco perché il romanzo è ambientato in Sicilia ‒ l’imitazione di Camilleri, con il suo particolarissimo impasto di dialetto e italiano. C’è, invece, una lingua molto letteraria nelle descrizioni e, nei dialoghi, molto vicina all’italiano parlato vero, quello colorito da locuzioni tipiche e da qualche espressione dialettale. Ti è venuto naturale scrivere così o si tratta di una scelta ponderata?

Ti ringrazio per le Tue domande, che colgono in modo non superficiale lo spirito del romanzo e mi hanno dato l’occasione di riflettere su alcuni passaggi del mio tentativo di produzione letteraria.

Innanzitutto, lasciami dire che non mi considero affatto uno scrittore, se non per il semplice fatto di essermi trovato a raccontare una storia. Mi considero piuttosto un lettore prestato alla scrittura e con questa ben precisa limitazione vanno accolte le mie considerazioni, che rispecchiano appunto le opinioni di un lettore. E passo alla risposta.

Si può scrivere “uno sparo risuonò, seguito da una bestemmia” senza chiamarsi Dashiell Hammett? Non so se l’uso di un diverso registro linguistico sia stata una scelta ponderata, nel senso di meditata e ragionata. Certamente, sin dal primo momento della stesura del testo avevo chiaro che volevo far parlare ognuno degli attori del romanzo in una lingua il più possibile vicina a quella che, nella realtà, quel determinato personaggio avrebbe effettivamente usato, sulla base della sua estrazione sociale e della sua formazione. Così, per esempio, il linguaggio dei politici è diverso da quello dei poliziotti o dei magistrati, come pure da quello dei mafiosi. Ed è diverso il linguaggio, utilizzato magari dallo stesso personaggio, a seconda che si parli in forma pubblica o in forma privata. Nello stesso tempo, per una consapevole scelta di campo, raccontando attraverso un narratore onnisciente, volevo fargli utilizzare uno stile che si distaccasse da quello dei personaggi.

Queste le intenzioni. Il risultato, poi, è quello che è. Mi rendo conto che indulgere a certi compiacimenti può essere un limite del romanzo e che il rischio è quello di essere evitato da chi ricerca nella lettura una prosa facile e scorrevole: valori che sono, per carità, importanti nel saper scrivere, ma che spesso nascondono l’insidia di scivolare nel banale e nella sciatteria. Mi sono posto il problema, e ho cercato di risolverlo dicendomi che mi piaceva scrivere certe pagine in un certo modo. Poi, da lettore, sono sempre stato convinto che l’autore e il lettore si scelgano reciprocamente, secondo le rispettive sensibilità e inclinazioni. Lo stesso convincimento ho mantenuto da narratore.

S., così identificabile con Catania, è una città che immagino tu ami molto. Nel romanzo, lungi dall’essere un mero fondale, S. ha voce e fisionomia, quasi carne e ossa, come un personaggio. Questo è il tuo esordio narrativo: da quanto tempo covavi la storia che hai scritto? E perché hai scelto questa ambientazione?
Il romanzo è in primo luogo un atto d’amore verso la mia città, nella quale sono nato, sono cresciuto, mi sono formato; nella quale sono nati i miei figli e da cui sono dovuti andare via. Volevo sottolinearne bellezze e storture. E lanciare anche un grido d’allarme, nell’ambiziosa speranza (forse nell’illusione) di provare a risvegliare qualche coscienza e a invertire un declino che sembra – ahimè – inarrestabile.

Avevo dentro questa storia da parecchi anni. Volevo parlare di vicende che potrebbero svolgersi a Catania, come pure in molte altre località d’Italia e purtroppo non del solo Meridione. Per forza di cose, poiché ho la possibilità di scrivere soltanto nei momenti di libertà dal lavoro (e quindi in prevalenza durante le ferie estive e nei periodi di vacanza), la gestazione del libro è stata laboriosa. In fin dei conti, non è stato un male, in quanto i tempi dilatati mi hanno consentito di meglio maturare ed arricchire l’intreccio della vicenda, oltreché di caratterizzare in modo più accurato i personaggi. Questo perché, anche quando non potevo concretamente dedicarmi alla scrittura, mi capitava di cogliere degli spunti e di trarne possibili modifiche o arricchimenti del testo, che annotavo di soppiatto e cercavo poi di riportare nel romanzo.

Quanto all’ambientazione, come dicevo, la storia non è, a mio avviso, una vicenda soltanto catanese. Naturalmente, essendo io catanese e avendo vissuto quasi sempre in questa città, i luoghi e le ambientazioni sono in sostanza quelli della mia città. Non penso che si possa scrivere bene, anzi, che si possa scrivere, se non di ciò che si conosce. Quindi, se io tratteggio un mercato, una piazza, una marina, un porto, evidentemente le descrizioni risentono della mia formazione e delle mie esperienze. Ma questo non vuol dire che le vicende raccontate si siano effettivamente svolte in quei luoghi. Non si scrive un romanzo per raccontare la realtà, ma per trasformarla, aggiungendovi qualcosa di diverso.

A me è sembrato evidente, nel tuo romanzo, che a qualche elemento di realtà hai mescolato fatti e personaggi immaginari. È stato difficile bilanciare gli elementi che riecheggiano vicende reali con quelli di pura invenzione?
Come dicevo, scrivere un romanzo, a mio parere, vuol dire partire da esperienze reali per trasfigurarle, ma il prodotto finito non ha poi nulla a che vedere né con la realtà né con l’immaginazione: diventa – nel suo piccolo – un fatto cosmologico, si tratta di costruire un mondo, di darsi delle regole e di rispettarle. In questo senso, ho certamente incontrato delle difficoltà. È la legge di Cechov: se nel primo atto della commedia si parla di un fucile, nel terzo atto quel fucile deve sparare. Voglio dire che per scrivere un testo decente non occorre soltanto descrivere fatti e personaggi ben caratterizzati, che interessino il lettore, ma soprattutto si devono costruire vicende coerenti con le premesse e conseguenti negli sviluppi. Per questo, se all’inizio scrivere è stato un gioco, poi è diventata una sfida con me stesso.

Come hai costruito i personaggi? Hai avuto presenti alcuni tipi umani che poi hai trasfigurato?
Certamente. Quanto alla descrizione dei caratteri, nel romanzo sono entrate mie esperienze personali o di persone che conoscevo, come pure vicende che mi erano state narrate e che mi avevano colpito. Ma si è trattato di semplici spunti, poi modificati per esigenze narrative, enfatizzati e amplificati nei tratti per conferire maggiore sapore alla pietanza. In questo senso è stato veramente un gioco, perché spesso mi sono divertito a mescolare insieme in uno stesso soggetto aspetti e atteggiamenti caratterizzanti persone diversissime, e a immaginare come e in che misura avrebbero reagito se messi di fronte a situazioni particolari.

Io sono rimasta favorevolmente colpita dall’assenza dei rocamboleschi colpi di scena tipici della letteratura di genere. Nell’investigazione sull’omicidio Riccobono si sente il passo delle indagini vere, il lavoro di paziente e meticolosa ricostruzione dei fatti, le piste che si seguono ma poi non portano da nessuna parte. Quale peso ha avuto, nella costruzione della storia, la tua esperienza di lavoro?
Ha giocato molto. Non volevo scrivere un romanzo nel quale un geniale investigatore risolve un enigma con la sola forza dell’intelletto. Non parliamo poi di storie incentrate su inseguimenti e sparatorie. Io faccio il pubblico ministero da oltre trent’anni e non è questa la mia esperienza: non si svolgono così le indagini giudiziarie. In esse non sono i muscoli o il cervello a giocare il ruolo decisivo e al centro non vi è un’aquila solitaria, ma un gruppo di lavoro nel quale ognuno dei componenti cerca di contribuire alla soluzione del caso. E il risultato si raggiunge (quando si raggiunge) solo dopo una ricerca lenta e paziente, magari per un caso, un colpo di fortuna o un errore del criminale.

Che lettore è Francesco Pulejo? Quali romanzi lo appassionano, quali hanno influito sulla sua formazione?
Rispondo con una breve premessa. Il tentativo del romanzo è quello di collocare la trama poliziesca a un primo livello di lettura: costituisce, nei miei desideri, soltanto un pretesto per raccontare un ambiente, una società; più in profondità, c’è la volontà di tracciare un parallelo con la realtà attuale. Ma, a un livello ancora più sotterraneo, ho cercato di inserire una traccia letteraria fatta di citazioni, echi, rimandi, suggestioni dei libri che ho amato e sui quali mi sono formato.

Personalmente ritengo che non si possa scrivere senza leggere, perché i libri parlano sempre di altri libri. In un romanzo spagnolo di fine ‘800, La Presidentessa, di Clarin, che ho amato molto, c’è una frase che mi è rimasta scolpita: Copiava quello che nessuno aveva voluto leggere. È una dichiarazione di poetica e descrive, secondo me, il mestiere dello scrittore, per la cui formazione occorre leggere, leggere, leggere, anche opere faticose o minori. In questo senso, sono un appassionato lettore di retroguardia. Classici in generale, e specialmente russi e francesi dell’800. Poi i Sudamericani: Amado, Garcia Marquez, Vargas Llosa, Borges. Calvino e i nostri Grandi siciliani: anzitutto la lezione di sobrietà e asciuttezza di Verga. La lucida ferocia di De Roberto, la capacità di analisi psicologica del Pirandello delle novelle e di ricostruzione storica di quello de I vecchi e i giovani, l’amara ironia di Brancati, la tensione morale di Sciascia sono per me modelli irraggiungibili. Ma mi piace anche il Camilleri dei racconti in costume, impagabile nella capacità di giocare con il filo narrativo delle storie. Se devo indicare un romanzo tra tutti, dico sempre il Don Chisciotte, il primo ed il migliore. Tra i giallisti, Ellroy è un maestro nel tenere il lettore sulla corda di una tensione spesso angosciante. Quando non ho voglia di essere preso per il collo, scelgo la vertiginosa intelligenza di Eco, la luciferina eleganza di Fruttero e Lucentini, la capacità costruttiva di Scerbanenco e la forza evocativa di Izzo.

Hai già un’altra opera in cantiere? E pensi comunque che questa incursione nella narrativa avrà un seguito?
Vediamo prima il risultato di questa. Poi, chissà… Grazie ancora.

LA CITTÀ DEL VENTO
Francesco Pulejo
Navarra Editore
Pagine 360
Anno di pubblicazione 2022

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