NON NE HO LA MINIMA IDEA di Francesca Massaroli

nonneholaminimaidea_coverNon ho la minima idea di come cominciare questa recensione. Sarà che questa storia è un cerchio perfetto: inizia nello stesso momento in cui finisce. E in mezzo c’è tutto il resto. E allora tu non sai bene se iniziare dall’inizio, dalla fine (che poi sono la stessa cosa, appunto), o da tutto-il-resto. Forse meglio lasciar perdere questi ragionamenti e scrivere qualche pensiero sparso, così come viene.

Quando la vita sembra procedere su un binario che non ammette deviazioni, è sempre il momento in cui, di solito, accade qualcosa. Bello o tragico che sia questo qualcosa, alla vita non importa. Le interessa solo dimostrarti che quel binario lì, che vedi tra i tuoi piedi quando guardi per terra, in realtà non esiste; che te lo faccia capire a colpi di orrore o di gioia, è ai suoi occhi (della vita, intendo) irrilevante.

Succede così anche in questo romanzo, quando l’esistenza di Anita Giunchi sta procedendo, senza scossoni, verso nulla. Anita, legata a un ragazzo di nome Otis che “fa l’artista”, ha da poco trovato un lavoro sicuro come segretaria in uno studio notarile rinomato, accantonando, forse per sempre, il sogno di fare l’insegnante:

A me far quel lavoro, mi sembrava di stare lì a compilare i giorni. Crocette a caso, però.

Ma i giorni della vita non si lasciano mai compilare a lungo, se si tratta di crocette messe a caso. Un giorno tutto comincia a finire (sì, perché a volte le fini non sono stacchi netti, sono biglie lanciate lungo una discesa). Arriva il dolore nella vita di Anita, quello vero, quello che è nero e basta. E non c’è altro che si possa aggiungere. La biglia comincia la sua discesa quando Otis la lascia:

Sulla carta di una cioccolata me l’ha scritto perché lui, era un artista. Non poteva usare della carta normale. Lui no. Però la cioccolata, se l’era mangiata tutta lo stesso.

Ma la biglia non si ferma, prende velocità, anela al fondo. Anita subisce il lutto di una persona, una di quelle che quando non ci sono è come se fossi senza una gamba oppure senza un braccio oppure senza le mani, ma non si vedono da fuori tutti quei senza.

Ci sono delle persone nei tuoi giorni, che la fanno la differenza. Che un giorno e poi un altro giorno, quelle persone sono lì e la fanno così bene la differenza nei tuoi giorni che te, non te ne accorgi nemmeno. E poi, una di quelle persone lì, forse proprio quella persona lì, muore.

Un pomeriggio Anita decide così di andare da uno Psico-terapeuta-filosofo per guarire (interessante qui l’idea della protagonista, che poi è anche un’opinione sottesa al nostro immaginario collettivo, secondo cui il dolore sia una malattia da curare). Anita però sbaglia stanza e si ritrova così a frequentare un corso di scrittura. Scopo del corso: scrivere un romanzo pseudo autobiografico.

Ma guarda che non è mica una roba che si pubblica questa, è una roba di terapia. Eravate sempre lì, te e Leo e la Ro e anche l’Anna, eravate sempre a dirmi che mi dovevo curare, che si vedeva che stavo male e allora adesso faccio ‘ste sedute di romanzo pseudo autobiografico che non lo so se funzionano, vediamo. E non so neanche che roba viene fuori alla fine, perché non lo so neanche io che roba è.

La forza maggiore del romanzo sta nella centralità che assume la Parola nella vita di Anita. La letteratura e la scrittura qui non sono frivolo passatempo borghese ma diventano strumento di salvezza, unica ancora quando non si vede più riva. Non c’è traccia del linguaggio inteso come contrapposto alla concretezza dei fatti, come quando si usa dire che contano questi ultimi, più che le parole. La scrittura qui è qualcosa che respira, che accade, che si incarna tra le ferite della vita. E chissà, magari le sana. Inevitabile in questo senso citare Pennac, quando pensa al dolore come a qualcosa che si difende da se stesso elaborando frasi:

Forse è proprio questa la necessità letteraria, questo bisogno vitale di scriverci su… Altrimenti non resterebbe che morire con i morti.

Ho trovato efficace ed estremamente visiva l’immagine del linguaggio come qualcosa che innaffia di colori le teste e le cose. L’importanza conferita alle parole, a quelle che si dovrebbero scegliere con cura e a quelle confezionate da evitare, acquisisce a tratti un’aura sacrale:

Andateci vicino piano a certe parole ragazzi, non sono dei bancomat certe parole, siete voi certe parole, cercate quello che siete voi che già, è una roba difficile da fare e poi fate fatica e poi dopo, andateci vicino all’Arte. Non state lì a cercare delle parole e basta, di parole ne vendono tutti quanti a quintali, le regalano anche. Cercate voi, in mezzo a tutte quelle parole. Voi non siete dei giullari a cottimo, siete degli uomini e delle donne, non siete dei giullari a cottimo. A meno che non lo decidiate volontariamente, di essere dei giullari a cottimo ché uno poi, è libero di fare quello che gli pare.

Il linguaggio del romanzo è studiatamente immediato. Dico “studiatamente” perché quello che a una lettura superficiale potrebbe apparire semplice immediatezza, è in realtà un’immediatezza che dopo essere stata mediata decide consapevolmente di ritornare a essere immediatezza, come un attore che, pur avendo una dizione perfetta, deve rinunciare a qualche sfoggio di perfezione per interpretare al meglio un personaggio dalla forte inflessione dialettale.

Il romanzo di Francesca Massaroli è una lettura che, ne sono certa, rimarrà in me indelebile. A ricordarmi che possiamo pure travestirci da adeguati al nostro mondo impermeabile, senza guardare ciò che non vogliamo guardare, senza capire ciò che non vogliamo capire, però dopo? Stare lì a guardare della plastica con la testa avvolta nella plastica, è più bello?

francescamassaroli

NON NE HO LA MINIMA IDEA
Francesca Massaroli
Panda Edizioni
2016
p.128
Euro 9,90

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