LA RAGAZZA CON LA LEICA di Helena Janeczek

Tutti hanno sentito parlare almeno una volta di Robert Capa. Ma Gerda Taro, sua compagna, fotoreporter di guerra, è altrettanto conosciuta?

Candidato al premio Strega e al premio Campiello, La ragazza con la Leica di Helena Janeczek ripercorre gli anni che vanno dall’inizio della carriera della giovane fotografa fino alla sua tragica scomparsa a soli 26 anni, nel 1937.

Non appena si inizia a sfogliare il libro, ci si imbatte in una foto. Una foto datata agosto 1936, scattata a Barcellona, che raffigura due miliziani antifranchisti. Un uomo e una donna, che si guardano ridendo complici. È un’immagine divenuta celebre, subito seguita da un’altra. Stessi soggetti, stesso istante ma qualcosa di diverso: la prospettiva. I due amanti sono stati fotografati da due angolazioni diverse perché i fotografi sono due: Robert Capa e Gerda Taro.

Quei due si sono riconosciuti negli altri due. E sono altrettanto innamorati. Una piccola coincidenza ha voluto che i fotografi appena sbarcati a Barcellona, si fossero imbattuti in una coppia a cui somigliavano.

La foto «parla anche di chi l’ha fatta» e così, con questo primo gioco di specchi, l’autrice scosta le tende e ci svela un modo di procedere nella ricerca-narrazione che parte proprio dalle fotografie come documento.

Dalle immagini alle parole, dalle differenti prospettive delle due foto, prende avvio una narrazione corale, dove tre voci ci consegnano un’immagine sfaccettata e a tratti inafferrabile di Gerda Taro, nata Gerta Pohorylle, «volubile e volitiva, un metro e mezzo di orgoglio e ambizione, senza i tacchi» che «si era scelta il lavoro e il nome, ed era morta in un incidente stupido e crudele, però in una guerra che, con le sue immagini, voleva vincere per tutti.»

Il primo a parlarci di lei è Willy Chardack: medico chirurgo trapiantato a New York che, in un giorno qualunque del 1960, al telefono con Georg Kuritzesk ricorda l’amica comune. Una chiacchierata tra due uomini di mezza età tra i quali aleggia una “presenza assente”: colei che entrambi hanno amato e che alla fine non ha scelto nessuno dei due. Sono questi due “testimoni” a introdurre la relazione tra Capa e Taro. A Ruth Cerf, amica di Gerda, spetta invece il ruolo di rivelarci la nascita degli pseudonimi con cui i due amanti sono conosciuti. Endre Friedmann aveva adottato il cognome “Capa” («che non si storpiava in nessuna lingua») su suggerimento della stessa Gerda, che invece, si era scelta un nome che ricordava quello di una stella del cinema (Greta Garbo).

Tra fughe (da Lipsia a Parigi, da Barcellona a New York), l’affermarsi dei totalitarismi e la guerra imminente, i ricordi personali servono quasi da pretesto per dipingere con dovizia di particolari il contesto storico degli anni trenta: non un semplice sfondo ma l’essenza di cui i protagonisti di questa storia sono inevitabilmente imbevuti.

All’avvicendarsi di voci corrispondono salti spazio-temporali. Dagli anni sessanta veniamo riportati indietro al 1938, da New York a Parigi, per poi tornare, nella terza parte, al 1960, a Roma, dove Kuritzesk sta scrivendo, con una Olivetti, una lettera a Ruth. Le tre figure si legano attraverso mezzi e oggetti. Oggetti che in questo libro, a partire dal titolo, assumono un ruolo fondamentale nell’identificazione tanto dei momenti storici, quanto dei personaggi (Gerda stessa viene descritta come «disarmante nella sua piccolezza», caratteristica che condivide con la sua Leica). La macchina fotografica diventa la vera protagonista, allorché sopravvive ai suoi proprietari. La stessa metamorfosi della dattilografa Gerta Pohorylle in Gerda Taro si compie proprio per mezzo della Leica di Capa che «finiva al banco dei pegni» per essere poi puntualmente riscattata.

Gerda muore, la Leica resta. Sul finire, l’asse della narrazione si sposta – dalle persone alle cose – sull’odissea della valigia messicana contenente i negativi delle foto di Capa, Taro e dell’amico Chim, andata perduta fino al prodigioso ritrovamento del 1995. Un oggetto, ancora una volta, carico di significato, che si lega ad altri destini.

Alla fine, il cerchio si chiude con una serie di foto i cui soggetti sono, stavolta, proprio Gerda e Capa, colti dagli scatti di Fred Stein mentre sorridono come i due miliziani.

In questo romanzo ci sono molti elementi, molte strade imboccate e spesso sbarrate da un intricato intreccio di intenti che lasciano affascinati ma incerti, confusi. La smania documentaristica dell’autrice precipita il lettore in un vortice di informazioni che arrivano a sopraffarlo.

Un libro ricco di considerazioni e spunti: storici, politici, esistenziali ed estetici, non sempre ben dosati. Spesso prolisso, nel tentativo di fornire quante più informazioni possibili, sconfina nel caos e nella perdita del focus narrativo. La cifra di questo romanzo diventa, così, rintracciabile principalmente nel prologo e nell’epilogo, che insieme rivelano la stretta parentela tra fotografia e scrittura e il loro comune sforzo asintotico di farsi ambasciatrici di “verità”.

Se «l’attesa che le foto affiorino duplica la sensazione di sprofondamento, l’alchimia buona soltanto per estrarre il passato che ritorna ma non rivive», la sensazione del lettore è proprio questa: l’impazienza che l’immagine nitida affiori, finché la sua curiosità si infrange su un’immagine muta e immobile che nulla può avere a che fare con la realtà, sempre soggetta a mutazioni.

Ti accorgi, allora, che la falsificazione di una foto accade più di frequente sul lato di chi la guarda che sul versante del soggetto.

Le foto ci dipingono Taro e Capa come una coppia innamorata. Il loro mito è giunto, per il tramite di queste immagini, fino a noi. Ma si tratta, appunto, solo di un mito. Sorge allora una domanda: se Gerda non fosse morta nel pieno della sua relazione con il fotografo ungherese, sarebbe, col tempo, rimasta insieme a lui? Sarebbe passata alla storia come la “compagna di Capa”?

La ragazza con la Leica
Helena Janeczek
Guanda (2017)
Pagine 320
€ 18,00
Disponbile anche in eBook
ISBN 9788823518353

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