Gigli, una di noi di Irmgard Keun è uno di quei romanzi “ritrovati”, letteralmente risorto dalle sue ceneri. Bruciato dai nazisti nei roghi del 1933, in Italia ha conosciuto un periodo di diffusione che ne ha tuttavia deformato il messaggio, con un intervento di censura fortemente invasivo. Si è dovuto attendere il 2016 per avere una traduzione fedele e integrale, firmata Annalisa Pelizzola per L’orma editore.
La copertina rosa antico, raffigurante una donna slanciata ed elegante, nell’atto di camminare assorta nei suoi pensieri, prefigura la felice commistione tra forza e grazia che sprigiona da ogni pagina.
Gilgi (Gisela Kron all’anagrafe) è una ventenne solare e risoluta. Se ne va in giro per Colonia con un cappello e una macchina da scrivere. Di lavoro fa la stenotipista. Viene da una famiglia piccolo borghese e, sebbene viva con i suoi, gode di una certa indipendenza alla quale non rinuncerebbe per nulla al mondo. Strenuamente convinta che la meritocrazia possa estendersi a tutti gli ambiti della vita, si dà da fare per mantenere un’immagine di sé basata su una rigida, quanto entusiastica, disciplina del corpo e della mente. Eppure sa godersi la vita e se c’è una cosa che reputa del tutto priva di senso è la morale bigotta. In una città attraversata da un capillare malcontento, il viso di Gilgi si distingue dagli sguardi grigi e rassegnati di chi incrocia per strada. Gilgi “non ha pretese che vadano oltre la sua portata” e questo le assicura una certa soddisfazione. Sebbene trascorra molto tempo tra la gente, ha solo due amici: l’eccentrica Olga e il cinico Pit. Gilgi non sa aspettare: si lancia a capofitto in imprese di ogni tipo senza perdere tempo, né lucidità. Neanche rivelazioni che potrebbero rompere bruscamente la sicurezza confortante della sua routine la mettono realmente in crisi. La sua sicurezza vacilla solo quando incontra Martin…
«Io sono tua, Martin… il mio unico desiderio è essere… tua. Sì, adesso bevo.» Bene, è così che gli piaccio, quando dico queste sciocchezze. Domattina spero tanto di non ricordarmi più nulla di quanto ho detto, mi vergognerei a morte. «Tu, di me, preferisci le cose che mi rappresentano meno”, e… e tutto ciò che per me conta di più al mondo per lui non vale niente».
Ma no, questa non è la classica storia d’amore dove l’“io” si lascia schiacciare dal melenso e infido “noi”. La protagonista indiscussa rimane una giovane donna che sa vivere così a fondo da annaspare (affogare quasi) in un sentimento annichilente per poi riemergere in superficie, pure sotto il peso delle sue debolezze.
Sullo sfondo appena tratteggiato di una Germania che sta per piombare nel suo periodo più buio, emerge in primo piano il percorso di crescita di una ragazza che solo al più distratto dei lettori apparirà come un cambiamento. La maturità e la consapevolezza che la protagonista dimostra nelle ultime pagine è, infatti, figlia dell’ottimismo e della spensieratezza delle prime. Gilgi ci dà un’importante lezione: si può essere veramente liberi e autodeterminati prendendo le distanze dall’autocommiserazione e dal piagnisteo. Pure in mezzo alle sue preoccupazioni trova il tempo di occuparsi degli altri in modo pratico, diretto e concreto, abbandonandosi, di tanto in tanto, con la naturalezza disarmante di chi passa per ingenuo, in provocatorie quanto fulminanti considerazioni sui limiti di ogni discorso collettivista intriso, in fondo, di impersonalità.
Ma porca miseria, a chi altro dovrei dare importanza se non a me stessa? Io ci credo, per me è una maledetta balla quando qualcuno dice che pensa prima alla collettività e poi a se stesso. E poi chi sarebbe la massa? Non è un viso, non è una persona a cui si vuole bene e che quindi si vorrebbe aiutare. Stai zitto, Pit, sto parlando io! Siete così spaventosamente vanitosi, voi ragazzi, volete sempre essere speciali e fare qualcosa di speciale. Volete sempre essere degli eroi e credete che il mondo non possa fare a meno di voi. E dato che volete essere eroici, allora avete bisogno di qualcosa che vi faccia arrabbiare, di qualcosa contro cui poter combattere, e se non c’è ve lo inventate.
Lo stile colloquiale e frammentario della lingua parlata, con quel continuo, quanto fluido, intrecciarsi del discorso diretto con la narrazione, ci permette di entrare nella testa della protagonista, sperimentando il progressivo movimento dalla disciplina al caos. I puntini di sospensione, segno della deriva dell’ordine, aumentano man mano che la narrazione procede e la vita della protagonista si ingarbuglia. Onomatopee e intermezzi musicali contribuiscono a creare uno sfondo vivo.
<Ciò che più si apprezza del personaggio Gilgi è che, nell’incarnare una nuova figura femminile, è stata pensata e costruita per vestirne i panni non per “missione”, ma quasi per natura. Il suo desiderio di autonomia è una volontà che non conosce sforzi, è un bisogno naturale che non va domandato, ma semplicemente messo in atto. È un diritto che Gilgi si prende da sé, a qualsiasi costo.
Gilgi, una di noi
Irmgard Keun
traduzione di Annalisa Pelizzola
L’orma editore (collana Kreuzville Aleph)
pp. 234
ISBN 978-88-99793-13-5