Fresco d’autore: La misura della distanza. Intervista con Gabriella Bampo.

 

Sinossi
Venezia, anni Settanta. Isabella conosce un giovane studente persiano, Farid, di cui si innamora perdutamente. Nonostante l’opposizione delle famiglie si sposano e si trasferiscono a Teheran. Isabella resta incinta, ma per il parto la coppia sceglie l’Italia. Di ritorno in Iran, le differenze culturali si fanno sentire e i conflitti con Farid diventano frequenti. La donna si sente prigioniera di un meccanismo di sottomissione che mina la fiducia in se stessa. Nel 1979 scoppia la rivoluzione islamica e la coppia fugge in Italia. Il matrimonio, già in crisi, si spezza quando Isabella trova la forza per ribellarsi. Dopo qualche anno la donna reincontra un amico persiano, ex rivoluzionario. Parleranno del passato, della malinconia che ormai colora la loro vita, della perdita degli ideali.

INTERVISTA
Questo libro nasce da una storia vera, la tua storia. Quando hai sentito l’urgenza di scriverla e come hai fatto a prendere le distanze dal tuo vissuto personale per scrivere la storia del tuo romanzo?
Avevo intenzione di scriverla da anni, l’ho avuta da sempre, ma dopo i primi tentativi mi sono resa conto di non essere in grado di esercitare un sufficiente distacco da alcuni fatti della mia vita. Ho dovuto aspettare a lungo, non senza scrivere, anzi, scrivendo furiosamente, perché quando si è coinvolti in una storia e i ricordi sono ancora freschi c’è bisogno di metabolizzare. Ho avuto anche la tentazione di lasciare, mi cimentavo con racconti di altro genere, ma continuavo a pensarci, la storia aveva un’urgenza che mi pressava. Volevo riflettere sulla storia particolare che avevo vissuto e il miglior modo di approfondire per me, è scriverne. L’argomento principale su cui mi interrogo ancora è se sia possibile un amore fra due persone di culture diverse.

Negli anni settanta ne eravamo certi, i giovani, coinvolti nel movimento di ribellione culturale del sessantotto che aveva messo in discussione alcuni presupposti della società, infiammati dalle idee nuove e dall’entusiasmo giovanile, erano convinti di poter cambiare il mondo. Si aprivano prospettive inimmaginabili. Anche l’amore era sdoganato dai pregiudizi e dalle differenze sociali e culturali, soprattutto fra gli studenti delle università. A Venezia le facoltà di lingue straniere e soprattutto di architettura accoglievano studenti greci, etiopi, iraniani, che ho frequentato in varie occasioni, partecipavano ai collettivi politici portando avanti principi di giustizia e di democrazia con la speranza di trasmetterle e perseguirle nei loro paesi di origine. Era una parte del mondo che arrivava vicino a me e ci sentivamo tutti sullo stesso piano. Cittadini del mondo.

Come sia riuscita a prendere il distacco, non so. È stato un lavoro molto lungo su me stessa, aiutata dal tempo che attenua le situazioni critiche e stende una patina di tolleranza su vicende del passato, anche su quelle che hanno provocato dolore .

Prendere la distanza dalla propria storia è importante, penso sia comune a tutti gli autori che scrivono di vissuti personali, è un discorso molto lungo, ma per vedere i fatti un’altra prospettiva bisogna mettersi in discussione, ritrovare una certa serenità, ricostruire il passato presuppone anche una certa forza d’animo. L’ho dovuta trovare.

Il titolo del libro è “La misura della distanza” Curiosità, è un titolo suggerito da te?
A quale delle molte distanze presenti del libro si riferisce? O forse a tutte?
Sono orgogliosa di dirlo, il titolo l’ho scelto proprio io, dapprima per soggezione da esordiente avevo considerato validi alcuni titoli suggeriti, poi mi sono accorta che non davano il senso di ciò che io volevo comunicare con questo romanzo. Alla fine sia l’editor che l’editore hanno convenuto sulla mia scelta, è stata una soddisfazione.

Riguardo al termine distanza, prima di tutto si intende una distanza geografica, cinquemila chilometri tra Venezia e Teheran. Poi c’è la distanza culturale, che quando si è innamorati si accorcia o addirittura si annulla, ma purtroppo spesso riappare nel quotidiano. Ci sono nel libro anche altri tipi di distanza, il dolore della madre per un problema del suo bambino è una condizione che la distacca dal mondo e la allontana dagli altri. E la distanza si crea per l’incomprensione, nella mancanza di dialogo, quando il rapporto di coppia non funziona più.

Il romanzo inizia con un viaggio, un viaggio lunghissimo da Venezia all’Iran passando per la Jugoslavia (allora era ancora Jugoslavia), poi la Bulgaria, la Turchia e infine l’Iran. Questo viaggio per arrivare in Iran è un po’ il leitmotiv della prima parte del romanzo – che alterna momenti del viaggio al ricordo di come è nato l’amore tra Isabella e Farid. Ci racconti un po’ di questo lungo viaggio verso l’Iran?
Questo è il racconto di un viaggio verissimo, nessuna invenzione. Al giorno d’oggi raggiungere Teheran via terra suscita sorpresa, ma negli anni settanta noi giovani eravamo attratti dall’oriente e alcuni si avventuravano in quelle terre con ogni mezzo, molti avevano il miraggio dell’India. Eravamo coraggiosi. Per Isabella è stato un banco di prova, partire con quattro lire in tasca, su treni fatiscenti, vecchi pullman, tappe disagiate, qualche rischio, ci vuole spirito di avventura ma anche una piccola dose di incoscienza. Il primo viaggio è durato nove giorni, della serie dei viaggi narrati, il più difficile. Il percorso in treno è stato di due giorni e due notti e mezzo, fermi nello stesso vagone, in agosto, senza igiene e pulizie, vicino alle toilette l’odore era insopportabile. Ma, a parte la stanchezza, c’erano aspetti positivi, lungo la strada si poteva vedere il paesaggio cambiare gradualmente, cosa che viaggiando in aereo non succede e vieni catapultato da un ambiente all’altro senza mediazione.

Come viene accolta Isabella in Iran dalla famiglia di Farid?
Viene accolta con riguardo e sollecitudine, anche se Isabella, non conoscendo i costumi, dapprima scambia l’arte dell’ospitalità per benevolenza. L’ospitalità è uno dei tratti connotativi di questo popolo, l’ospite è sacro, quando arrivi in una casa persiana sei accolto in una maniera vorrei dire soave, il termine giusto, ti mettono al centro dell’attenzione, ti riempiono di premure. Un modo caloroso di accogliere l’ospite che mi ha affascinato. Dopo un viaggio del genere, arrivare in una casa comoda, fresca e pulita è stato rasserenante. Però quando Isabella sia accorge dello sguardo malcelato e un po’diffidente della futura suocera si sente una straniera, si rende conto di esserlo e da lì si innestano una serie di situazioni complicate. In fondo la ragazza era una cristiana e veniva osservata con un po’ di pregiudizio, specialmente dalla madre di Farid che era molto religiosa. Riguardo al modo di vestire, non c’era problema, la rivoluzione islamica arriva solo alla fine del 1978, il governo dello shah, per quanto fosse un regime, permetteva una certa disinvoltura nei costumi, anzi la promuoveva, e si poteva vestire all’europea. Al tempo i diversi strati sociali avevano modi di comportamento e stili differenti, la parte del popolo meno abbiente o povera e i tradizionalisti erano radicati nel costume islamico anche nell’abbigliamento e nelle abitudini, la borghesia spesso era moderna e proiettata verso l’occidente. È stato dopo la rivoluzione che i costumi delle donne si sono involuti per seguire rigidamente alcuni detti del Corano.

Secondo te possiamo affermare che il tuo libro è anche una storia di formazione e crescita, la crescita di Isabella?
È una bellissima domanda. Effettivamente volevo trasparisse dalla storia il processo di evoluzione di Isabella, giovane e romantica, che affronta la vita con molte illusioni e curiosità e abbandona tutto per amore e senza esitare. Il cambiamento interiore inizia dalla nascita del figlio, la responsabilità la fa crescere, le difficoltà da affrontare la inducono a maturare in fretta. Fino a che era innamorata e libera poteva seguire il marito nelle uscite e nella vita sociale, quando diventa madre deve modificare le sue abitudini, le cure per il figlio prendono il sopravvento e la inducono a cambiare i suoi ritmi, cosa per lei naturale e necessaria, con il marito invece iniziano le incomprensioni. Qui inizia a sentirsi condizionata. In fondo il romanzo è un lungo processo di formazione che si compirà al ritorno in Italia, con la ribellione di Isabella.

Il romanzo è diviso in quattro parti. La seconda parte del libro è secondo me la parte più forte dal punto emozionale. Mi vorrei soffermare un attimo sulle pagine (p.85-86) in cui racconti il trattamento che Isabella subisce in ospedale, in un ospedale occidentale.
Isabella ha una grande delusione quando, ritornata in Italia al momento del parto per ricevere il sostegno dei suoi cari e soprattutto per maggior fiducia nella sanità del suo paese in un momento così delicato, in un ospedale che al tempo si considerava civile ed evoluto al confronto delle strutture sanitarie del medio oriente, riceve un trattamento al limite del pregiudizio razziale. La pediatra la chiama nel suo ambulatorio e le annuncia che deve comunicarle qualcosa  riguardo al neonato, ma prima legge il cognome del padre e chiede di che nazionalità sia, con un modo circospetto e diffidente che raggela la giovane madre, ed evidenzia un serpeggiante razzismo che già esisteva al tempo, probabilmente attenuato dalla mancanza di occasioni, dal fatto che gli stranieri in Italia erano in numero esiguo. Più avanti la vicenda diventerà ancora più dolorosa. Questa parte della storia segna l’inizio delle incomprensioni tra Isabella e il marito.

Che tipo di rapporto instaura Isabella, ma in particolare che tipo di rapporto ha instaurato Gabriella, con le donne conosciute in Iran?
In Iran ho fatto molte amicizie, instaurando rapporti di complicità, sostegno, confidenza. Rapporti che si sono mantenuti nel tempo, specialmente con mia cognata e la sua famiglia, con lei e le sue figlie esiste una corrente di affetto e comprensione, nonostante la lontananza, che a ogni occasione di incontro rinnova la gioia e di stare insieme e di accogliersi reciprocamente.

Questo libro è anche un libro di luoghi, e di descrizioni, in cui la tua scrittura diventa evocativa e ci fa vedere attraverso gli occhi di Isabella i paesaggi iraniani. Inoltre anche il cibo è una presenza costante nel libro – sia nella prima parte nel viaggio, poi nella famiglia Farid e anche verso la fine quando Isabella cucina per l’amico iraniano. Paesaggi, odori e sapori si fondono sapientemente nelle tue pagine e vengono restituite al lettore.
Ci vuoi accennare qualcosa su questo aspetto così concreto e assieme ricco di implicazioni?
Sono profondamente convinta che la cultura di un paese passi anche attraverso la sua cucina, nei suoi riti e nel modo di avvicinarsi a tavola riusciamo a comprendere meglio l’essenza di un popolo e la sua storia. La cucina iraniana ha subito cambiamenti nel tempo, a questo riguardo nel 2010 ho lavorato a una tesi di laurea che metteva a confronto i costumi culinari dell’Iran prima e dopo la rivoluzione del 1979 e più indietro, andando a ricercare nell’antichità, ho osservato elementi significativi che evidenziano come siano state introdotte alcune abitudini in base alle condizioni geografiche, sociali e religiose del paese e alle sue vicende storiche.

Nel 2016, dopo quarant’anni di assenza, sono riuscita a ritornare in Iran per un breve viaggio. Ho voluto scegliere un tour organizzato perché a causa della diaspora dopo la rivoluzione, che ha allontanato molti miei parenti e conoscenti dal paese, non avevo quasi più riferimenti. Infine mi sono ritagliata tre giorni a Teheran per me sola girando da sola per la città senza nessun problema, anche se devo ammettere che la conoscenza della lingua è stata un grande facilitatore.

Ho fatto esperienza negli alberghi cinque stelle con menu standardizzati e li ho confrontati con la ricchezza e la varietà della cucina delle case private, in cui sapori odori e colori sono un elemento esotico e interessante. Negli anni settanta ho trovato spezie e altri ingredienti che non conoscevo, alcuni oggi sono entrati a far parte della nostra cucina. Ogni spezia ha un suo perché e un suo beneficio. La convivialità e il cibo mi hanno aiutato a quel tempo a creare situazioni di scambio amichevole, a instaurare amicizie e consolidarle.

Lo stesso rito del tè, in infusione nella teiera sopra il bollitore in alternativa al samovar, con le foglie che si schiudono lentamente esalandone l’aroma, è un inno alla pazienza che aiuta a vivere in modo meno frenetico.

Ci sono pagine del libro che toccano momenti tragici per la storia dell’Iran, il venerdì nero di Teheran, la rivoluzione che ne segue. Possiamo dire che questo è anche un libro di disincanto ( disincanto per l’amore), disincanto di Ahmad (l’amico rivoluzionario di Farid) per la politica, della caduta delle illusioni. Sei d’accordo?
Alla fine c’è questa parte malinconica e nostalgica ed è proprio così nel vedere un paese, che Isabella ha imparato ad amare, sconvolto da una guerra civile.
La rivoluzione nasce un po’ alla volta, gradualmente, e Isabella all’inizio ne sottovaluta i segnali perché vive in un mondo abbastanza ovattato, impara a parlare farsi ma non sa né scrivere né leggere, il farsi è una lingua indoeuropea, ma la scrittura è in caratteri arabi e non è facile, quindi non legge i giornali. Inoltre il regime dello shah, che tutti temono, sembra forte e potente, vige la censura. La protagonista è giovane, non crede allo scoppio di una rivoluzione, così deflagrante come poi è stata. Nessuno avrebbe potuto immaginare un epilogo così drastico. Nell’ultimo capitolo del libro i protagonisti parlano della perdita degli ideali, commentano la dissoluzione del sogno, il bisogno di rimboccarsi le maniche e ricominciare da capo senza illusioni, sia in amore sia in politica. Sono consapevoli che non è facile ricostruire la vita sulle proprie rovine. Poi, chissà.

Alla fine del libro troviamo un ringraziamento  speciale: “Se non avessi incontrato Giulio Mozzi, la strada sarebbe stata diversa o forse non l’avrei percorsa. Da lui ho imparato a scrivere un romanzo. 
Ci racconti come è stato lavorare con Giulio Mozzi come editor? Che cosa ti è rimasto dentro di questo percorso.
Nel percorso del romanzo ho avuto la fortuna di incontrare Giulio Mozzi, ho voluto incontrarlo in verità. È stata un’occasione determinante, pur senza darmi illusioni si è interessato alla mia storia e dopo averne letto una versione ha deciso di darmi sostegno. La seconda scrittura ancora non corrispondeva al racconto che ne volevo fare. Parlando con lui ho fatto chiarezza, sono entrata nell’ottica della scrittura di un romanzo. Per renderlo tale dovevo uscire da me e dalle mie vicende personali, quindi da me stessa, costruire i personaggi guardandoli da lontano, non era necessario si identificassero esattamente con gli originali, potevo usare l’immaginazione. Avevo complessi di inferiorità con la scrittura. Scrivevo di nascosto, le scuole di scrittura, che mi mettevano a confronto con gli altri, mi sono state utili, ma quando un persona della competenza di Giulio Mozzi mi ha rivolto l’attenzione ho avuto una forte spinta. Ho trovato più coraggio e mi sono data molto da fare. Lavorare con lui lo considero un privilegio. Non spreca un attimo, va dritto al punto e nota dettagli che poi si rivelano fondamentali. Inoltre è di una cortesia disarmante.

Parliamo di stile.
All’inizio del romanzo troviamo uno stile franto – sincopato e poi la scrittura cambia un po’ – le frasi si allungano, una struttura più complessa.  La scrittura ha quasi un respiro più ampio quasi a seguire lo sviluppo della storia. Ci racconti un po’ le scelte fatte durante la stesura del libro che ti ha portato a questo risultato?
Ho lavorato molto sullo stile, a livello prima istintivo poi più consapevole. Ho imparato molto leggendo, assimilando il modo di scrivere di altri scrittori a me congeniali, ma anche confrontando stili diversi che possono dare un input differente e farti riflettere. Mi sono allenata l’orecchio con l’ascolto, ho letto e riletto tante volte, sono andata avanti registrando e riascoltandomi e cercando una musica, un ritmo.

Qualcuno ha osservato che nella parte finale del romanzo c’è una velocità diversa, infatti è un rallentamento e un allungarsi delle frasi, la malinconia di due persone che si guardano indietro. Lo stile per me dipende da quello che vuoi esprimere. Soprattutto nei momenti più drammatici o più dolorosi uso frasi brevi. Sintetiche. Essenziali. A volte senza verbi. Come hai detto, un linguaggio franto, sincopato, con costrutti veloci.

Io adoro le copertine dei libri. Mi racconti qualcosa della copertina del tuo libro in cui c’è bellissima foto di te e tuo figlio.
L’editor e l’editore hanno scelto la foto che avevo già pubblicato anni fa, quando mi è stata proposta ho accettato con gioia perché rappresenta me e mio figlio  sulle rive del mar Caspio in un momento abbastanza felice della nostra vita.

Ci sono stati autori che ti hanno influenzato nella scrittura di questo libro? E in generale, a quali sono i tuoi autori di riferimento come scrittrice  ma anche come lettore?
Non posso certo confrontare il mio stile con quello dei mostri sacri che ho sempre amato, uno di questi è Albert Camus specialmente il romanzo “Lo straniero”, letto dai vent’anni almeno dieci volte e ogni volta mi ci perdo, mi piace il suo stile molto asciutto nel descrivere situazioni ai limiti dell’assurdo, un punto di vista freddo, neutro, all’apparenza senza emozioni che conduce verso l’indifferenza per le vicende che lo circondano, quasi un’allucinazione.

Un’altra autrice che mi ha influenzato negli anni è Marguerite Duras, il romanzo “L’amante”, e altre variazioni, come “L’amante della Cina del Nord”, “Il dolore” e il meno noto, introvabile e interessantissimo “Il rapimento di L. V Stein”.

Da ragazza ho letto tanto Dino Buzzati, letto e riletto i suoi “ Racconti” e “Il Deserto dei Tartari”, un capolavoro.

Un’altra citazione la devo fare per Rosa Matteucci, una scrittrice che ho conosciuto di persona, usa un linguaggio molto colto, raffinato, “Cuore di Mamma” è un romanzo in un certo senso incisivo e caustico. Anche “Tutta mio padre”, in cui rivolge alla famiglia uno sguardo implacabile e al tempo affettuoso, una connotazione molto particolare che ammiro.

E indimenticabile e inarrivabile la dimensione in cui mi ha trasportato la lettura di “La montagna incantata”, di Thomas Mann.

Alcuni autori li dimentichiamo con il tempo, ma quando si ritrovano può accadere che non ti interessino più o l’incontrario. Con l’età si cambiano i gusti o la visione della vita, rileggendo ci scopri aspetti che prima non avevi colto e quando accade certi autori sono una miniera di ispirazione.

Dopo questo debutto, stai scrivendo un nuovo romanzo?
Certo, ci sto lavorando da un anno e ho terminato la prima bozza. Non riesco a fare a meno di scrivere. Ho tanto ancora da dire e spero di averne il tempo e il modo. Questo secondo lavoro è incentrato sul dolore, sulla ricerca di sé. Sulla vita che a volte è spietata e altre ti sorprende regalandoti qualcosa di inaspettato, che restituisce la speranza.

Un’ultima domanda: quale messaggio ti augureresti arrivasse ai lettori dopo la lettura de La Misura della distanza?
In fondo lasciare un storia è come stendere un tappeto in cui le persone possono raccogliersi e riflettere. Le esperienze narrate e trasformate in romanzo danno la possibilità di capire meglio una questione, un ambiente, dei personaggi e il loro carattere, di accettare o no condizioni della vita, o semplicemente di conoscere più a fondo qualcosa. L’importante è non fermarsi alla superficie, cercare di andare oltre, appunto, leggendo.

Gabriella Bampo vive a Venezia. Ha studiato lingue e letterature orientali all’Università Ca’ Foscari. È vissuta sei anni in Iran.

LA MISURA DELLA DISTANZA
Gabriella Bampo
Laurana Editore
Anno di pubblicazione: 2021
Pagine 160 – Brossura

One thought on “Fresco d’autore: La misura della distanza. Intervista con Gabriella Bampo.

  1. Sono Lauretta, ho letto con molto piacere e interesse la tua intervista dopo l’incontro al bar Royal con le ginnaste. Complimenti!…e grazie

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