LA POLVERE CHE RESPIRI ERA UNA CASA. INTERVISTA A ELEONORA DANIEL

Il tuo romanzo La polvere che respiri era una casa prende il nome da una citazione dai Quattro quartetti di T.S. Eliot. Perché questo titolo, perché questa scelta?
È vero, è un verso che mi ha sempre emozionata – nel modo forse un po’ ingenuo e inconsapevole che hanno le cose di emozionare. Credo sia perché raccoglie temi a me consonanti (la casa, la polvere, le storie). Il verso precedente lega ancora di più questi elementi: la polvere che si respira non solo era una casa, ma il pulviscolo sospeso nell’aria «segna il punto in cui una storia è finita». Questo filo che riunisce storie, polvere e case mi è subito tornato in mente quando ho iniziato a pensare al romanzo, tanto che il titolo per me è sempre stato quello con cui è arrivato in libreria.

Questa che tu racconti è una storia di creazione (casa, figli, storie) e di fallimenti. Ed è qualcosa che si sente molto in tutto il romanzo. Cosa ti ha spinto a voler raccontare proprio questa storia?
L’esperienza del fallimento, della rottura, delle cose che fino a un certo punto reggono e poi cadono più o meno catastroficamente è un’esperienza universale per me interessantissima. Non tanto per l’idea romantica legata al fatto che ogni cosa crollata a un certo punto, prima del crollo, ha avuto una storia da raccontare; quello che mi piace è proprio il fatto che è esistito un punto nel tempo in cui è rimasta in piedi, prima di sgretolarsi. Il fatto che ogni cosa che viene detta, pensata, costruita, amata possa esserci e poi morire, il momento incalcolabile in cui si colloca questo salto.
Volevo provare a raccontarlo.

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L’ANALFABETA di Agota Kristof

Aprendo L’analfabeta bastano poche righe e subito siamo in una dimensione altra, una dimensione fatta di sensi che si accavallano e contaminano, in un’infanzia fatta di odori, colori e sapori piccoli, domestici, intimi:

L’aula di mio padre sa di gesso, di inchiostro, di carta, di quiete, di silenzio, di neve, anche in estate. La grande cucina di mia madre sa di bestia macellata, di carne bollita, di latte, di marmellata, di pane, di biancheria umida, di pipì dell’ultimo nato, di fermento, di rumori, di calore estivo, anche in inverno.

Ma soprattutto è un libro sulle parole, un racconto autobiografico sulle parole della piccola Agota, che fin da bambina legge e legge, racconta storie da lei inventate al fratello più piccolo e ancora legge: “Leggo. È una malattia. Leggo tutto ciò che mi capita sottomano, sotto gli occhi”. Legge per il nonno che orgogliosamente la fa esibire davanti ai vicini “E io leggo. Correttamente, senza errori, alla velocità che vogliono loro”. Continua a leggere