PALOMAR di Italo Calvino

In seguito a una serie di disavventure intellettuali che non meritano d’essere ricordate, il signor Palomar ha deciso che la sua principale attività sarà guardare le cose dal di fuori. Un po’ miope, distratto, introverso, egli non sembra rientrare per temperamento in quel tipo umano che viene di solito definito un osservatore. Eppure gli è sempre successo che certe cose – un muro di pietre, un guscio di conchiglia, una foglia, una teiera, – gli si presentino come chiedendogli un’attenzione minuziosa e prolungata: egli si mette ad osservarle quasi senza rendersene conto e il suo sguardo comincia a percorrere tutti i dettagli, e non riesce più a staccarsene. Il signor Palomar ha deciso che d’ora in avanti raddoppierà la sua attenzione: primo, nel non lasciarsi sfuggire questi richiami che gli arrivano dalle cose; secondo, nell’attribuire all’operazione dell’osservare l’importanza che essa merita.

Palomar è un romanzo. Palomar è una raccolta di saggi. Palomar è un’autobiografia. Palomar è tutte queste cose e nessuna. Difficile inquadrare Palomar in un genere stilistico, ancora più difficile capire le intenzioni dell’autore mentre lo scriveva ma ciò che è certo è che nessuna opera è mai stata così vicina nell’essere, quello che oggi chiameremo, il lascito calviniano.

Ogni riga trasuda senza troppi filtri il pensiero di Calvino che pensa e s’illude d’esser nascosto da Palomar, il personaggio meno enigmatico nella storia dei personaggi. Eppure nella semplicità delle sue parole così come quella del pensiero ci viene svelata una filosofia di vita, uno sguardo critico distaccato, incredibilmente aderente alla realtà proprio perché lontano da essa anni luce, insomma nell’occhio di Palomar risplende e riduce un barone rampante che rimpiange il suo albero.

Il signor Palomar è in piedi sulla riva e guarda un’onda. Non che egli sia assorto nella contemplazione delle onde. Non è assorto, perché sa bene quello che fa: vuole guardare un’onda e la guarda. Non sta contemplando, perché per la contemplazione ci vuole un temperamento adatto, uno stato d’animo adatto e un concorso di circostanze esterne adatto: e per quanto il signor Palomar non abbia nulla contro la contemplazione in linea di principio, tuttavia nessuna di quelle tre condizioni si verifica per lui. Infine non sono «le onde» che lui intende guardare, ma un’onda singola e basta: volendo evitare le sensazioni vaghe, egli si prefigge per ogni suo atto un oggetto limitato e preciso.

Torna in quest’opera quell’ethos del distacco così caratteristica di Calvino, torna quell’etica che non sa a fare a meno del suo personaggio ne del suo artista, torna e plasma un mondo nuovo, quello della vecchiaia, della pace senza tempo, dove nulla spinge e preme e lo sguardo libero si posa ovunque osservando senza giudizio.

Ed è in questa pace senza tempo ne spazio che Palomar pensa e pensa e osserva, e il suo giardino è un universo così a sé stante e mai esplorato che l’osservazione delle tartarughe diventa un trattato di linguistica e il fischio del merlo un dissertazione sull’amore.

Ma l’autore è sempre dietro l’occhio di Palomar e nella sua mente e snocciola pensieri e semina idee e passioni come quella astronomica ad esempio e il cannocchiale diventa uno strumento di misurazione di distanza, di realtà, un occhio girato al contrario, puntando verso l’interno dell’anima. E poi ci stanno gli odori, le città, la migrazione degli uccelli, una pianta in balcone, lo zoo, tutto si offre così nitido e così nuovo a Palomar ora che è vecchio e tutto si offre così nuovo, a quel vecchio partigiano che affacciato al suo balcone osserva il nuovo mondo con la sua lente di ingrandimento interrogandosi e interrogando, allontanandosi sempre di più dalle risposte.

Quello che ci lascia questo libro sono solo riflessioni, qualche perla di saggezza, un occhio nuovo, una lente e un universo, a noi sta la capacità di saperle vedere.

PALOMAR
Italo Calvino
Postfazione Seamus Heaney
Mondadori (Oscar Moderni)
pp. 180
euro 13

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