Il tuo romanzo La polvere che respiri era una casa prende il nome da una citazione dai Quattro quartetti di T.S. Eliot. Perché questo titolo, perché questa scelta?
È vero, è un verso che mi ha sempre emozionata – nel modo forse un po’ ingenuo e inconsapevole che hanno le cose di emozionare. Credo sia perché raccoglie temi a me consonanti (la casa, la polvere, le storie). Il verso precedente lega ancora di più questi elementi: la polvere che si respira non solo era una casa, ma il pulviscolo sospeso nell’aria «segna il punto in cui una storia è finita». Questo filo che riunisce storie, polvere e case mi è subito tornato in mente quando ho iniziato a pensare al romanzo, tanto che il titolo per me è sempre stato quello con cui è arrivato in libreria.
Questa che tu racconti è una storia di creazione (casa, figli, storie) e di fallimenti. Ed è qualcosa che si sente molto in tutto il romanzo. Cosa ti ha spinto a voler raccontare proprio questa storia?
L’esperienza del fallimento, della rottura, delle cose che fino a un certo punto reggono e poi cadono più o meno catastroficamente è un’esperienza universale per me interessantissima. Non tanto per l’idea romantica legata al fatto che ogni cosa crollata a un certo punto, prima del crollo, ha avuto una storia da raccontare; quello che mi piace è proprio il fatto che è esistito un punto nel tempo in cui è rimasta in piedi, prima di sgretolarsi. Il fatto che ogni cosa che viene detta, pensata, costruita, amata possa esserci e poi morire, il momento incalcolabile in cui si colloca questo salto.
Volevo provare a raccontarlo.
Pietra, erba, acqua e fuoco sono i 4 elementi su cui il romanzo sembra costruito. Ce li racconti (in riferimento al romanzo ovviamente).
Tra i vari tentativi di costruzione dei due protagonisti c’è, come hai giustamente anticipato, provare a raccontare quattro storie a un figlio che forse arriverà. Per me è più che altro un tentativo un po’ goffo di affetto, non uno slancio di creatività letteraria – è il modo in cui ricordo mio padre scrivere filastrocche per me e mio fratello bambini. La scelta di virare sui quattro elementi (leggermente modificati) ha a che fare con l’obiettivo dei due protagonisti, che vuole essere provare a condensare in questi racconti quattro mondi da donare al bambino. Come spesso accade il risultato finale non conserva molto di questa idea originaria: viene a mancare il bambino, viene a mancare il progetto comune. Cambiano i destinatari e le idee, e le storie che ne nascono sono forse storie che non si racconterebbero a un figlio (ma qui potremmo aprire un’infinita parentesi su cosa rende una storia raccontabile o meno a un bambino, e su quanto la violenza sia in realtà al cuore di molte fiabe).
Riesci a narrare piccoli episodi di vita quotidiana riuscendo a far identificare il lettore con quello che racconti, qualche parola e siamo lì anche noi. E questa è un’altra cosa riuscita del romanzo. Rendere la quotidianità immediata. Quanto lavoro c’ è dietro questa apparente semplicità?
Una volta scelta la voce narrante (il Noi) e stabilito che volevo che questo Noi fosse per la maggior parte del tempo in casa e non avesse particolari interazioni con il mondo esterno, è stato inevitabile raccontare la loro dimensione domestica. Più che inevitabile, anzi, direi che è stato proprio quello che volevo. Il calcolo progettuale però si ferma qui, raccontare la quotidianità minuta della coppia è stato molto spontaneo e naturale, sono felice che funzioni.
Ho letto che del tuo romanzo tu dici La polvere che respiri era una casa non ha la pretesa di essere una storia sulla genitorialità.” però io aggiungo che un po’ lo è. Perché uno dei motivi forti della rottura di questo Noi sta proprio nel non riuscire a diventare genitori.
Secondo me questo è un elemento forte del libro. Che ne dici?
È vero, forse dovrei dire che non è un libro sulla maternità e sulla paternità. E in qualche misura è anche questo inevitabilmente, dal momento che ne parlo, però ecco: non avevo intenzione di indagare cosa significhi davvero aspettare un bambino, o provare ad aspettarlo. La genitorialità è una scusa: è un tentativo come un altro di costruire qualcosa insieme, e fallisce perché a fallire è proprio la base collettiva di questo insieme. La stessa che reggeva la casa, o le storie. Non funziona a prescindere. Per questo motivo mi piace dire che è un romanzo invece sulla generatività: sul tentativo di creare, di generare, inteso in senso letterale (avere un figlio) e letterario (raccontare una storia).
Questo è un romanzo anche sull’incomunicabilità della coppia. Quando il protagonista elenca le “colpe” di lei, dice: “la più grave è la bugia”. E’ veramente la bugia la sua colpa più grande?
Per il mio protagonista sì, ma non perché in assoluto le bugie siano le colpe più atroci. Per Riccardo la bugia è la cosa peggiore perché è quello che ha sancito effettivamente il distacco definitivo tra lui e Margherita. La bugia è il muro perché con il suo solo esistere confina i protagonisti su due diversi livelli di consapevolezza (una che mente e l’altro che ignora). Di fatto, la bugia è la prima sottolineatura pratica del fatto che non comunicano (non comunicheranno) più, il resto è conseguenza.
Stile: la lingua, la scelta delle parole, della punteggiatura sono precisi, attenti, voluti. Brava!
Come sei arrivata alla scelta – azzeccata, di scriverlo così.
Non è stata del tutto una scelta, o meglio, non è stato un calcolo, ma è frutto delle cose che ho letto e che ho scritto nel corso degli anni e che mi hanno resa quello che sono come autrice (e ancora prima come lettrice, professionista e domestica). Di sicuro è un aspetto della scrittura a cui io tengo moltissimo. E come evidenzi bene anche tu non ha a che fare solo con la scelta lessicale (su cui basta citare, a braccio, il consueto Carver: le parole sono tutto quello che abbiamo per cui è il caso che siano quelle giuste), ma anche con la punteggiatura. Forse mi piace pensare ai segni di interpunzione come a parole invisibili? Di sicuro anche i punti, le virgole, gli spazi, le parentesi, i vuoti, gli a capo: anche tutto questo è tutto quello che abbiamo, e vorrei fosse sempre quello giusto. Poi ci si può anche chiedere: giusto per cosa? Non lo so.
A proposito di stile, ma anche a proposito di creazione, hai scelto di inserire delle narrazioni all’interno della narrazione – in particolare due racconti uno di Lei e uno di Lui. Cosa ti ha portato a fare questa scelta?
Anche questa è una scelta che ha molto a che fare con la mia passione da lettrice e spettatrice: le storie su cui si innestano/in cui si inseriscono altre storie mi sono sempre piaciute moltissimo. Mi rendo conto sia una risposta ingenua, ma è anche bello, credo, che un esordio conservi questa componente ingenua e affettuosa, che condensi tanto di quello che mi piace e che sono io.
In esergo hai usato una frase dell’artista Louise Bourgeois, tratta dall’opera He Disappeared into Complete Silence, che recita: «Una volta un uomo stava raccontando una storia, era anche una buona storia, e la cosa lo rendeva molto felice, ma la raccontò così in fretta che nessuno la capì». Perché proprio questa citazione?
Perché mi sembra riassumere molto bene quello che è il cuore del romanzo, e perché mi risuona nelle orecchie fin dalla prima volta in cui l’ho letta, qualche anno fa. Non so bene per quale motivo si decida di inserire una citazione in esergo a un romanzo, o se esista un modo giusto di sceglierne una, per me è stato uno slancio molto spontaneo e irrazionale, il richiamo delle consonanze, lo stesso mistero per cui pensando X volte ci viene in mente Y e si aprono le divagazioni. Detto questo, però, forse l’ho sempre ricordata così bene proprio perché affronta un tema a cui sono affezionata: l’incomunicabilità.
Ci sono stati autori, autrici che ti hanno influenzato nella scrittura di questo libro? E in generale, a quali sono i tuoi autori di riferimento come scrittrice ma anche come lettrice?
Sicuramente non posso non citare il gusto divertito per la lingua letteraria e per i giochi di parole della prosa di Michele Mari, ma anche la lingua più arcaica e mitologica di Borges o il gusto per le riscritture di Alberto Savinio, o ancora l’uso pulito e sorprendente della punteggiatura di Giovanni Arpino. Ci sono poi autrici a cui sono molto affezionata per tutto un aspetto linguistico e stilistico più violento (come sintassi, come immagini). Penso soprattutto ad Amelia Rosselli, Agota Kristof e Flannery O’Connor.
Sei caporedattrice e editor di Accento edizioni, il cui obiettivo principale è- cito dal sito: “quello di portare alla luce voci nuove e originali della narrativa”. Dopo aver tu stessa pubblicato, un romanzo che secondo me calza a pennello con questo obiettivo – per un’altra casa editrice, come ha influito, se ha influito questo sul tuo lavoro, e al contrario come ha influenzato la tua scrittura il tuo essere editor?
Ogni tanto penso che sia più utile all’Eleonora-editor l’Eleonora-scrittrice, che viceversa. Forse questo pensiero ha a che fare anche con il mio percorso: ho iniziato a scrivere ben prima di pensare di diventare un’editor – o anche solo di sapere cosa significasse la parola editing. Trovo che la disponibilità a sperimentare con la lingua, lo sforzo mimetico consapevole, la cura per le parole possano rendermi un’editor migliore, e sono cose che ho imparato prima di tutto scrivendo. Al contrario, lavorare tutto il giorno con le parole (l’Eleonora-editor) ostacola non poco la mia voglia/forza di dedicarmici anche nei momenti liberi, di essere effettivamente creativa (l’Eleonora-scrittrice). Detto questo, credo anche che la scrittura sia esercizio costante della parola, dunque sicuramente lavorare con le parole mi aiuta anche come scrittrice (o almeno spero).
Se tu potessi augurarti, che ai lettori rimanesse un’immagine, un ricordo, dopo la lettura del tuo romanzo, quale vorresti che fosse?Forse vorrei si potesse conservare l’idea del fuoco visto come forza affascinante e inspiegabile, avvicinabile solo per approssimazione.
Ultima curiosità: stai scrivendo già un’altra storia?
No! Ho qualche idea, ma nessuna fretta. A dirla tutta, sono anche contenta che sia così: c’è tempo.
LA POLVERE CHE RESPIRI ERA UNA CASA
Eleonora Daniel
Bollati Boringhieri
pp. 208
euro 16